martedì 19 luglio 2011

Miatto_Vs_Mari_Vs_Cecilia.

Mi arrovello il cervello.
Di certo c'è che ho un'idea più tangibile adesso. Il fatto non  cambia. Cioè non ho ancora uno straccio di storyboard. Però adesso è estate, e adesso posso pensare meglio. Non che scrivere su questo blog aiuti a qualcosa però magari alla fine mi fa fare meglio un punto della situazione. Insomma mi permette di lasciare le cose a metà. Che tanto quando le riprendo le ritrovo sempre ferme qui. In questo punto. Un punto decisamente morto. ma almeno è un punto.
Risultato della giornata sonnolente e calda di oggi è che nella mia testa ci sono:
_il bianco e il nero
_il negativo
_lo stop motion
_un pennarello indelebile
_il piano bianco su cui studio
_la macchina fotografica e un cavalletto
_una dose di buona volontà
_Miatto sempre e comunque.
_Alcool o sgrassatore per poter tornare indietro ;)

lunedì 18 luglio 2011

Ettore Sottsass_vs_Diego Grandi (Sorprese per cui devo cominciare a pensare)

Mercoledì 11 giugno 1999, eccomi a Milano nello studio Sottsass Associati seduto su una poltrona nella sala d’aspetto. Mi sono già fatto annunciare a Liana, l’assistente di Ettore.
(...) 
Liana si avvicina. Ci salutiamo e mi invita a seguirla. Entriamo nel suo ufficio e mi presenta. Liana ci lascia.



Ettore Sottsass Mi ha detto Liana che lei è laureando in architettura, ma non ricordo bene qual è il suo argomento di tesi: l’architettura o il design?
Diego Grandi Diciamo che è più pertinente al design. La mia tesi sviluppa un ipotetico rapporto tra la letteratura e il design.
ES Ma quando parla di design si riferisce al disegno industriale o al disegno di cose che non necessariamente ci saranno o sono previste per una produzione di massa? Perché c’è una grande differenza che sarebbe ora sottolineare. In questo momento mi sembra che ci sia un grande revival del disegno, non solo del design. E poi, quando parla di letteratura, che tipo di letteratura intende?
DG Nella mia tesi prendo in considerazione un fenomeno letterario legato alla giovane narrativa italiana, che è stato chiamato Pulp, dai pulp magazine americani. Leggendo i romanzi e i racconti di questo genere ho associato la forza dirompente di questi giovani autori alla narrativa beat degli anni ‘60. Mi racconta come ha vissuto quel periodo e che esperienza ha tratto dalla conoscenza con gli scrittori della Beat Generation?
ES Ho incominciato a informarmi su questi autori verso la fine degli anni ‘50. Poi, negli anni ‘60, li ho conosciuti di persona a San Francisco: Ferlinghetti, Neal Cassidy, il personaggio di On the road, Burroughs e tanti altri. In quel periodo vivevo con Fernanda Pivano e risultava molto facile conoscere tutte queste persone.
DG È stato in qualche modo influenzato da quella generazione di scrittori?
ES Certamente, ma non per la loro letteratura, ma per il modo di immaginare la vita. Alla base della letteratura americana – conosco solo quella –, come in ogni testo letterario di valore da Gilgamesh in poi, c’è sempre un’immagine. C’è la rappresentazione dell’universo o del rapporto con l’universo e con la vita. È filosofia. O meglio un costume di vita. La prerogativa della letteratura americana era proprio di rappresentare la vita, le cose che accadono, non le idee. Ho imparato moltissimo, soprattutto dal punto di vista del comportamento etico-politico più che dal punto di vista strettamente letterario. Avevo già un certo interesse per le culture orientali, specialmente per quella indiana, e con Ginsberg ho trovato delle conferme: la possibilità di traslazione, di immaginare un’esistenza in maniera diversa dagli occidentali. Non come uno schema rigido e con mete da raggiungere, ma come un sistema aperto che si rinnova giorno dopo giorno. Questo modo di pensare nasce da un atteggiamento semplice e distaccato, ma anche molto intenso. Forse certe cose che abbiamo fatto sono quasi dei diagrammi, delle rappresentazioni di queste idee. Ad esempio, a proposito del linguaggio espressivo con Memphis, abbiamo mescolato materie che appartenevano a contesti differenti: alle volte aulici, come legni e materiali preziosi, alle volte di uso comune, come i laminati che venivano impiegati soltanto per bagni e cucine. La mescolanza è la stessa operazione che hanno fatto allora questi scrittori. Usavano parole comuni ma anche slang, le parole nuove prese dalla strada, dal linguaggio militare. Parole che avevano un’eco diretta con la vita. Forse un’altra cosa che mi hanno trasmesso è una sfiducia nei sistemi e nelle ideologie. Qualsiasi disegno d’arte o architettura di fatto va a pezzi. L’architettura non è un monumento, ma una serie di luoghi, una serie di situazioni diverse. In questo senso la letteratura, in quanto metafora di un pensiero, ha di certo avuto profonde risonanze nel mio mestiere.
DG Lei prima accennava alla mescolanza, all’associazione di materiali grezzi con materiali aulici…
ES … sì materiali aulici come l’oro ad esempio. Tutto lo stile impero usava l’oro. Se uno associa l’oro al laminato plastico, fa una dichiarazione poetica: demitizzo l’oro e innalzo il materiale povero. È una combinazione che anzitutto produce un’emozione, un’energia, perché come nella pila voltaica dove due metalli diversi producono elettricità. Se nel progetto scelgo di usare insieme due linguaggi diversi, succede sempre qualcosa. Si rompe la possibilità di avere una sola immagine certa, solida, sicura di se stessa. Voglio invece creare delle sorprese che fanno pensare.
DG Ma questo modo di fare può essere assimilato alla tecnica del Cut-Up burroughsiano?
ES Certamente quello era un periodo di forte sperimentazione. Sicuramente il Cut-up, ma soprattutto cambiare i ritmi della pagina letteraria. Mentre la scrittura ottocentesca ha una cadenza molto lenta e una descrizione affaticata, il ritmo della scrittura contemporanea è rapido, utilizza i suoni della vita quotidiana. È diretto e non ha bisogno di spiegazione. Per noi le parole sono rapide come un “fuck you” oppure “ok”. Certamente nell’Ottocento non si usava… come dire… le idee non precipitavano. Era impossibile compattare un’idea in un ritmo velocissimo. Le parole-vita fanno in modo che la lettura sia molto più rapida. Così ho provato a trasportarlo nel mestiere che faccio, che forse non so più neanche io qual è. In questo senso c’è un rapporto con la letteratura. Ma bisogna cercare ciò che nasconde la figura letteraria, andare oltre, al di là della letteratura stessa.
DG È un sentimento che potrebbe guidare anche il progetto?
ES Certo, ma soprattutto la vita, non solo il progetto, perché anche il progetto nasconde la vita. Se uno dice “faccio minimalismo”, forse vuol dire che è un puritano, che ha paura dei sensi e delle sensorialità . Teme la memoria perché diffida delle citazioni stilistiche o linguistiche. Il minimalismo ha dietro di sé non solo un’idea stilistica, ma un modo di essere, di interpretare, di pensare. Ma questo è sempre successo. I buddisti pensavano in un certo modo e disegnavano in un certo modo, i tibetani pure.
Gli porgo una fotografia che lo ritraeva con Fernanda Pivano, Gregory Corso e Peter Orlowsky. È uno scatto fotografico del 1961 a Parigi.
DG Ricorda questo episodio?
ES Era la prima volta che ci incontravamo con Gregory, Ginsberg e Orlowsky. Loro vivevano in una piccola stanza d’albergo dove fumavano. Allora vedere qualcuno che fumava hashish sembrava un mistero totale.
DG Guardando la sua produzione c’è un oggetto in particolare che sembra essere un tributo a quella generazione “dannata” di scrittori, non tanto per la funzione che richiama la scrittura, ma per le forme e i contenuti che quest’oggetto richiama. Parlo della macchina da scrivere da viaggio “Valentine”, che io leggo come un omaggio alla Beat Generation e a quell’esperienza che lei ha fatto.
ES Per il disegno sì, ma purtroppo alla fine era un oggetto troppo costoso. Ma l’idea era proprio quella di arrivare a disegnare una macchina che fosse come la biro, che fosse un utensile per la vita quotidiana, non un simbolo di eleganza o di potere. La storia è che Olivetti si era accorta che l’Europa era invasa da macchine portatili meccaniche fatte in Giappone o in Cina che costavano la metà delle loro. Prima della “Valentine” c’era una macchina portatile della Olivetti che si chiamava “Lettera 22”, disegnata da Nizzoli. Nizzoli era un artista/scultore nel senso tradizionale del termine, perché aspirava a plasmare ogni cosa, un creatore. Alla Olivetti erano terrorizzati, loro avevano bisogno di una macchina da scrivere portatile meccanica che costasse poco. Pensavano:“Togliamo le minuscole e lasciamo solo le maiuscole come i telegrammi” o “Togliamo il campanello dell’a capo e semplifichiamo”. Meccanicamente c’era poco da semplificare, era già ridotta all’osso. Allora io ero tutto contento e dissi: “Benissimo, facciamo una macchina da vendere nei mercati di periferia, a mucchi, per terra”. Tutti contenti. Poi io ho fatto questo disegno molto popolare, e anche la pubblicità che la reclamizzava dava questo senso. Avevo fatto spendere tantissimi soldi all’Olivetti perché avevo mandato fotografi in tutto il mondo, anche al Polo Nord, ma l’Olivetti non se la sentiva di scendere così in basso. E allora, mentre la prima idea era quella di farla in plastica moplen, quella dei secchi, la realizzammo in ABS, che costava cinque volte il moplen. Il moplen andava bene, perché era già “volgare” come materia, in più è leggermente elastico per cui poteva prendere colpi senza rovinarsi. “Assolutamente no!” avevano detto “Facciamolo in ABS, rimettiamo le minuscole!”. È nata una macchina con un disegno, in un certo senso, velleitario, perché era stata pensata con certi intenti, l’essere popolare e per tutti, e invece costava cara. Questo mi succede anche adesso. Più faccio cose e più finiscono in gallerie d’arte. La ricerca costa carissima e alla fine c’è questa dicotomia tra quello che si fa e la collocazione nella società.
DG È stato influenzato da un libro come On the road?
ES Non saprei. Molti stimoli del libro mi venivano già da altre cose. Forse un’idea molto bella di quegli anni e che la sinistra giovanile europea non ha seguito, era quella di immaginare che erano possibili una società e una cultura a parte, senza la necessità di voler cambiare a tutti costi la società. Si trattava di aggiungere con spirito libero. E quindi abitare in comuni, vestirsi in modi diversi, radunarsi in forme inventive. Un riconoscersi senza necessariamente aggredire. L’aggressione può darsi che distrugga qualche cosa, ma non porta a un reale cambiamento. È un metodo vecchio. Io me ne vado per conto mio a vedere com’è il mondo, e non vado solo on the road, ma around the world. Viaggio, soprattutto studio altre culture. Mi immagino un mondo dove non ci sia una religione totalitaria, dove ci siano più religioni, più fantasiose, più sofisticate in un certo senso. Dove la religione sia un colloquio con se stessi. Questa già è una decisione importantissima se uno comincia a pensare così … allora vede tutto in maniera diversa. E anche la professione cambia. Ricordo anche il grande cinema underground. Warhol, anche lui smitizzava, almeno i primi anni, la cultura museografica e critica. È stato un grande periodo. Una rivoluzione che ha previsto anche quello che succede ora. La vita è una commedia e non una struttura permanente che cresce o regredisce. Ormai le informazioni sono tante e tali che non c’è più possibilità di scegliere. È solo una reazione immediata a quello che succede. C’è una accelerazione per cui non c’è neanche tempo di pensare. Anch’ io oggi non ho più tempo di limare i progetti. C’è una sorta di impossibilità. L’ideologia e il pensiero oggi sono fatti di frammenti. La vita mi sembra un continuo scontrarmi con dei pezzettini di vita, non con un insieme. La mia stessa vita è un pezzettino permanente di cose che faccio, che fisso, che dimentico. Tutte cose previste da quella generazione. Se si immagina la letteratura in questo senso allora c’è un contatto, perché la letteratura è l’esistenza, è la vita. C’è poi un altro aspetto che riguarda la letteratura, e sono le tante citazioni che in un’ideologia frammentaria si possono introdurre senza paura. Mentre il razionalismo, che ci riguarda comunque, pensava che il disegno di un oggetto e la bellezza stessa dovessero dipendere da una sorta di equilibrio tra produzione, economia e mercato, oggi non è più così. Posso anche pensare che questo tavolo non è più una superficie geometrica amaterica in un certo senso, ma che ha un valore intrinseco. È un pezzo di materia che tocco con le mani, che ha calore, che risponde al suono e alla luce in un certo modo e quindi fa saltare tutta quella certezza razionalista, perché immetto elementi di corruzione.
DG Lo potremmo definire come uno slittamento sensoriale?
ES È una lettura del mondo più attraverso i sensi che non attraverso l’intelletto. A questo punto se devo guardare questo grigio, entra in gioco tutto quello che ricordo dei grigi. Dove ho visto grigi, cosa vuol dire il grigio, metto nel processo delle frasi che chiamo letterarie. Mi ricordano brani di letteratura: pezzettini di libri che ho letto, avventure che ho avuto, sesso che ho frequentato. Allargo le possibilità di linguaggio e di percezione. Questo tavolo geometrico è largo tre metri e lungo quattro, però se dovessi descrivere il colore del suo laminato potrei parlare a lungo sul grigio: la vecchiaia, la neutralità, la solitudine ecc. Posso scrivere un libro sui grigi e quindi introduco un concetto letterario. I miei stessi sensi sono letteratura, non sono mai puri come la matematica. Sono un risultato di storie e di letterature.
DG Isabella Santacroce, una giovane scrittrice italiana, mi raccontava che la sua memoria è legata alla musica. Il brano musicale detta le atmosfere e i sentimenti del racconto stesso.
ES La memoria per me è sempre letteratura. Se vedo una ceramica antica, non voglio impossessarmi della forma, ma immaginare quel momento speciale quando un antico uomo la usava. Non è più lo stesso momento nel quale oggi le usiamo, è un momento che oserei chiamare perplesso. Forse abbiamo perso per sempre il senso della scoperta, di quella perplessità ingenua che gli occhi di un adulto non sanno più cogliere.


Diego Grandi
 (Italia, 1970)architetto e designer. Vive e lavora a Milano, dove ha fondato DGO_Diego Grandi Office, studio di progettazione di interni, prodotto e direzione artistica. La sua attenzione all’aspetto superficiale e visivo del design determina una ricerca sul valore epidermico dei materiali, sulle possibili declinazioni e contaminazioni di genere. Costante è l’indagine su come restituire ai progetti bidimensionali un linguaggio a tre dimensioni e la ricerca di un nuovo codice dell’abitare che si basa sull’osservazione di comportamenti e abitudini quotidiane.







Da "Abitare" n. 513, giugno 2011.